venerdì 8 giugno 2018

Club di lettura del 12 maggio: Solo qualche solco, del maestro Graziano Moretto


È stato un club di lettura sui generis quello che lo scorso 12 maggio ha visto come protagonista Graziano Moretto, primo fagottista dell’Orchestra Filarmonica di Anversa che nella sua vita è passato per via naturale dalla composizione di brani musicali a quella di brani poetici, facendo leva sulla comune origine dei due linguaggi espressivi e sul fatto che entrambi si rivolgano alla parte più ancestrale del nostro cervello: quella votata alle emozioni.




La consueta lettura dei testi è stata infatti intervallata dall’esecuzione dal vivo di quattro brevi impressioni per fagotto, create da Moretto negli anni ’90, come a voler restituire agli avventori della De Groene Waterman una visione completa del suo ideale estetico.
Moretto ha dimostrato di essere un artista dall’animo garbato, che non ama definirsi un poeta di professione (se davvero la rara dote della sensibilità sinestetica può circoscriversi a una sfera professionale), la cui semplicità dei modi però rivela inaspettatamente una curiosità caleidoscopica, che porta il lettore ad attraversare con volo leggero i tempi screziati della geografia umana: dalla primordiale mitologia mesopotamica alla filosofia taoista, passando per i grandi poeti della letteratura occidentale.
Questa duplice natura del musicista-poeta, semplice e complessa allo stesso tempo, emerge con trasparenza dai suoi testi, dove all’estrema semplicità dei suoni si accompagna sempre una massima complessità semantica.

La sua ricerca formale si muove infatti in direzione di ritmi ben riconoscibili, essenziali, “orecchiabili”, musicali appunto, in linea con quanto già affermato dal poeta cileno Octavio Paz, che nel 1967 scriveva: «La poesia di una sola sillaba non è meno complessa della Divina Commedia o del Paradiso Perduto […] Capire una poesia vuol dire in qualche modo capirne il suono [] leggere una poesia è udirla con gli occhi, udirla è vederla con gli orecchi» (Corriente alterna). Ma nella poesia di Moretto quanto più il suono diventa semplice, tanto più la semantica si complica e si moltiplicano i livelli di lettura: le parole sono volutamente ambigue per lasciare il lettore libero di seguire il proprio percorso interpretativo, come messo davanti a uno “scavo archeologico” che dalla superficie della parola poetica vuol condurre a strati più profondi della significazione.

Il primo “ostacolo” è fornito dal titolo delle raccolte dalle quali Moretto ha estratto le sue letture: Precessione (2003) e Do (2017).
Come spiega l’autore, questi titoli sono un “portale” che può scoraggiare o incoraggiare alla lettura a seconda della curiosità che si vuol investire per decifrarne il significato.
Il titolo della prima raccolta, ad esempio, fa riferimento alla precessione degli equinozi, cioè al movimento “a trottola” compiuto dall’asse terrestre in un periodo di 26.000 anni, un tempo lunghissimo e impercettibile per gli esseri umani, ma che diventa quasi un fremito, una vibrazione se a percepirlo è un osservatore lontanissimo come quello immaginato dal poeta, Sirio.
Il libro è stato scritto in un momento di sperimentazione, presenta perciò dei testi volutamente disomogenei dai quali Moretto ha cercato di mantenere una distanza quasi siderale: la scrittura è oggettiva, analitica, il linguaggio quasi scientifico, e nel realizzarli il poeta confessa di aver avuto l’impressione che si fossero quasi formati da soli, per auto-sedimentazione, dopo aver eliminato il superfluo.
Vi troviamo componimenti come Pietra, che facendo riferimento all’atto dello scrivere come forma di cristallizzazione del pensiero, sembra riecheggiare il “Se pareba boves” della lingua italiana; oppure Ziqqurat, la cui disposizione dei versi sulla pagina sembra ricostruire i gradoni ascensionali del tempio mesopotamico e nel quale troviamo versi puramente musicali, come il vrs.6, la cui melodia è dettata dall’elenco di parole sumere sopravvissute fino ai nostri giorni: «ninna nanna bella Innana buona notte luna Nanna va verso l’alto»; o anche Nel parco, nel quale viene ripresa la tesi medievale diffusa dal Libro dei XXIV filosofi (e variamente rielaborata nei secoli) secondo la quale Dio sarebbe “una sfera infinita il cui centro è ovunque e in ogni luogo”. Nella strofa finale leggiamo: «non c’è nessun centro/Nessuna circonferenza/Solo/Qualche/Solco», perciò nessuna definizione è in grado di afferrare, secondo Moretto, l’essenza di Dio, che può essere avvicinata solo tramite qualche indizio, qualche traccia, qualche solco appunto, come quello di un LP che direziona il suono.



La seconda raccolta ha invece un titolo aperto, Do, che è la prima nota musicale che impara un bambino, la prima persona del verbo dare, ma anche il suono di un ideogramma giapponese che ha il significato di “terra”. Per il poeta questo libro ha significato un po’ un ritorno alla “terra della poesia” dopo molti anni dall’uscita del primo, ma vuol essere anche un invito a non rimanere troppo “con i piedi per terra”, a ragionare utilizzando bene entrambi gli emisferi cerebrali, lasciando in alcuni casi la logica per abbandonarsi alle pure immagini (da qui la scelta di utilizzare un ideogramma).
Molte sono le forme sintattiche alternative che troviamo in Do, si costruiscono ad esempio degli assurdi semantici in cui i verbi “essere” e ’”avere” coincidono oppure due parole distinte assumono una forma univerbata per questioni legate al ritmo o alla maggior pregnanza del significato (si leggano ad esempio i «battenti chiusiaperti» e gli «oggettiricordo» in Congedo). E anche qui tornano echi di culture lontane, come il concetto orientale del Mujō “Im-permanenza”, nella Macchina in fuga, o dell’Amleto di Shakespeare come in Ordina Scene, dove però la vita non è “una favola narrata da uno sciocco”, bensì da Phersu, dio etrusco mascherato, il cui nome è collegato a una parola etrusca usata in tutto il mondo: “persona”.



L’incontro si è concluso con la presentazione in anteprima del terzo libro di Moretto, dal titolo Antichton - Antiterra, che verrà dato alle stampe il prossimo inverno.
Qui il titolo si riferisce alla concezione del filosofo greco Filolao (V sec. a. C.), secondo la quale i movimenti della Terra attorno al sole potevano essere spiegati dalla presenza di un pianeta gemello della Terra che ruotava alla stessa velocità, ma in senso opposto. Quest’idea viene presa in prestito nella raccolta per trattare poeticamente del mondo del pensiero pre-logico e post-logico (cioè della prima e dell’ultima fase della vita, quando cede il velo della razionalità), del mondo delle coscienze dissociate (la malattia mentale), ma anche del mondo del sogno e della visione, di tutti quei mondi cioè in cui la ragione non indirizza più la mente verso una direzione efficiente. Le visioni irrazionali che ne scaturiscono e che si oppongono alla logica sono appunto “l’Anti-Terra”.
Se Precessione voleva sottolineare una “distanza dalla terra” e Do un “ritorno alla terra”, il terzo libro si pone dunque come l’apice di una trilogia terrestre, che in quest’ultima pubblicazione si avvale anche del contributo dell’arte figurativa.
All’artista Giulio Napoletano è stata infatti affidata la visualizzazione grafica di alcune poesie che, in linea con la libertà evocativa caldeggiata dai versi, lascia ampio margine di interpretazione alla cifra stilistica dell’illustratore, pur mantenendosi coerente con l’iter del poeta.

Un esempio di quanto la sensibilità artistica di Napoletano si sia dimostrata aderente all’intenzione poetica di Moretto si evince ad esempio dalla rappresentazione della poesia Luce oscura (esposta al De Groene Waterman), in cui la figura femminile che emerge candida da un lago oscuro riecheggia il Lavacro di Venere della prima raccolta, sottolineando la linea continuativa dell’intero percorso editoriale.


Un club del libro davvero originale, che per una volta ha saputo distaccarsi dalla pura lettura per abbracciare altre arti e stimolare altri sensi.
Rossella Pensiero

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