È stato un club di
lettura sui generis quello che lo scorso 12 maggio ha visto come protagonista Graziano
Moretto, primo fagottista dell’Orchestra Filarmonica di Anversa che nella sua
vita è passato per via naturale dalla composizione di brani musicali a quella
di brani poetici, facendo leva sulla comune origine dei due linguaggi
espressivi e sul fatto che entrambi si rivolgano alla parte più ancestrale del
nostro cervello: quella votata alle emozioni.
La consueta lettura
dei testi è stata infatti intervallata dall’esecuzione dal vivo di quattro
brevi impressioni per fagotto, create da Moretto negli anni ’90, come a voler
restituire agli avventori della De Groene Waterman una visione completa del suo
ideale estetico.
Moretto ha dimostrato
di essere un artista dall’animo garbato, che non ama definirsi un poeta di
professione (se davvero la rara dote della sensibilità sinestetica può circoscriversi
a una sfera professionale), la cui semplicità dei modi però rivela inaspettatamente
una curiosità caleidoscopica, che porta il lettore ad attraversare con volo
leggero i tempi screziati della geografia umana: dalla primordiale mitologia
mesopotamica alla filosofia taoista, passando per i grandi poeti della
letteratura occidentale.
Questa duplice natura
del musicista-poeta, semplice e complessa allo stesso tempo, emerge con
trasparenza dai suoi testi, dove all’estrema semplicità dei suoni si accompagna
sempre una massima complessità semantica.
La sua ricerca formale
si muove infatti in direzione di ritmi ben riconoscibili, essenziali,
“orecchiabili”, musicali appunto, in linea con quanto già affermato dal poeta
cileno Octavio Paz, che nel 1967 scriveva: «La
poesia di una sola sillaba non è meno complessa della Divina Commedia o del Paradiso
Perduto […] Capire
una poesia vuol dire in qualche modo capirne il suono […] leggere una poesia è udirla con gli
occhi, udirla è vederla con gli orecchi» (Corriente
alterna). Ma nella poesia di Moretto quanto più il suono diventa semplice,
tanto più la semantica si complica e si moltiplicano i livelli di lettura: le
parole sono volutamente ambigue per lasciare il lettore libero di seguire il
proprio percorso interpretativo, come messo davanti a uno “scavo archeologico”
che dalla superficie della parola poetica vuol condurre a strati più profondi
della significazione.
Il primo “ostacolo” è
fornito dal titolo delle raccolte dalle quali Moretto ha estratto le sue
letture: Precessione (2003) e Do (2017).
Come spiega l’autore,
questi titoli sono un “portale” che può scoraggiare o incoraggiare alla lettura
a seconda della curiosità che si vuol investire per decifrarne il significato.
Il titolo della prima
raccolta, ad esempio, fa riferimento alla precessione degli equinozi, cioè al
movimento “a trottola” compiuto dall’asse terrestre in un periodo di 26.000
anni, un tempo lunghissimo e impercettibile per gli esseri umani, ma che
diventa quasi un fremito, una vibrazione se a percepirlo è un osservatore
lontanissimo come quello immaginato dal poeta, Sirio.
Il libro è stato scritto
in un momento di sperimentazione, presenta perciò dei testi volutamente
disomogenei dai quali Moretto ha cercato di mantenere una distanza quasi
siderale: la scrittura è oggettiva, analitica, il linguaggio quasi
scientifico, e nel realizzarli il poeta confessa di aver avuto l’impressione
che si fossero quasi formati da soli, per auto-sedimentazione, dopo aver
eliminato il superfluo.
Vi troviamo
componimenti come Pietra, che facendo
riferimento all’atto dello scrivere come forma di cristallizzazione del
pensiero, sembra riecheggiare il “Se pareba boves” della lingua italiana; oppure
Ziqqurat, la cui disposizione dei versi
sulla pagina sembra ricostruire i gradoni ascensionali del tempio mesopotamico e
nel quale troviamo versi puramente musicali, come il vrs.6, la cui melodia è
dettata dall’elenco di parole sumere sopravvissute fino ai nostri giorni: «ninna nanna bella Innana buona notte luna Nanna va verso
l’alto»; o anche Nel parco,
nel quale viene ripresa la tesi medievale diffusa dal Libro dei XXIV filosofi (e variamente rielaborata nei secoli)
secondo la quale Dio sarebbe “una sfera infinita il cui centro è ovunque e in
ogni luogo”. Nella strofa finale leggiamo: «non c’è nessun centro/Nessuna
circonferenza/Solo/Qualche/Solco», perciò nessuna definizione è in
grado di afferrare, secondo Moretto, l’essenza di Dio, che può essere
avvicinata solo tramite qualche indizio, qualche traccia, qualche solco
appunto, come quello di un LP che direziona il suono.
La seconda raccolta ha
invece un titolo aperto, Do, che è la prima nota musicale che impara un
bambino, la prima persona del verbo dare, ma anche il suono di un ideogramma
giapponese che ha il significato di “terra”. Per il poeta questo libro ha
significato un po’ un ritorno alla “terra della poesia” dopo molti anni
dall’uscita del primo, ma vuol essere anche un invito a non rimanere troppo
“con i piedi per terra”, a ragionare utilizzando bene entrambi gli emisferi
cerebrali, lasciando in alcuni casi la logica per abbandonarsi alle pure immagini
(da qui la scelta di utilizzare un ideogramma).
Molte sono le forme
sintattiche alternative che troviamo in Do,
si costruiscono ad esempio degli assurdi semantici in cui i verbi “essere” e
’”avere” coincidono oppure due parole distinte assumono una forma univerbata per questioni legate al ritmo
o alla maggior pregnanza del significato (si leggano ad esempio i «battenti chiusiaperti» e gli «oggettiricordo» in Congedo). E anche
qui tornano echi di culture lontane, come il concetto orientale del Mujō “Im-permanenza”, nella Macchina in fuga, o dell’Amleto di Shakespeare come in Ordina Scene, dove però la vita non è
“una favola narrata da uno sciocco”, bensì da Phersu, dio etrusco mascherato,
il cui nome è collegato a una parola etrusca usata in tutto il mondo:
“persona”.
L’incontro si è
concluso con la presentazione in anteprima del terzo libro di Moretto, dal
titolo Antichton - Antiterra, che verrà
dato alle stampe il prossimo inverno.
Qui il titolo si
riferisce alla concezione del filosofo greco Filolao (V sec. a. C.), secondo la
quale i movimenti della Terra attorno al sole potevano essere spiegati dalla
presenza di un pianeta gemello della Terra che ruotava alla stessa velocità, ma
in senso opposto. Quest’idea viene presa in prestito nella raccolta per
trattare poeticamente del mondo del pensiero pre-logico e post-logico (cioè della
prima e dell’ultima fase della vita, quando cede il velo della razionalità), del
mondo delle coscienze dissociate (la malattia mentale), ma anche del mondo del
sogno e della visione, di tutti quei mondi cioè in cui la ragione non indirizza
più la mente verso una direzione efficiente. Le visioni irrazionali che ne
scaturiscono e che si oppongono alla logica sono appunto “l’Anti-Terra”.
Se Precessione voleva sottolineare una
“distanza dalla terra” e Do un
“ritorno alla terra”, il terzo libro si pone dunque come l’apice di una
trilogia terrestre, che in quest’ultima pubblicazione si avvale anche del
contributo dell’arte figurativa.
All’artista Giulio
Napoletano è stata infatti affidata la visualizzazione grafica di alcune poesie
che, in linea con la libertà evocativa caldeggiata dai versi, lascia ampio
margine di interpretazione alla cifra stilistica dell’illustratore, pur
mantenendosi coerente con l’iter del poeta.
Un esempio di quanto
la sensibilità artistica di Napoletano si sia dimostrata aderente
all’intenzione poetica di Moretto si evince ad esempio dalla rappresentazione
della poesia Luce oscura (esposta al
De Groene Waterman), in cui la figura femminile che emerge candida da un lago
oscuro riecheggia il Lavacro di Venere
della prima raccolta, sottolineando la linea continuativa dell’intero percorso
editoriale.
Un club del libro davvero originale, che per una volta ha
saputo distaccarsi dalla pura lettura per abbracciare altre arti e stimolare
altri sensi.
Rossella Pensiero
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