venerdì 29 giugno 2018
domenica 24 giugno 2018
La conferenza del 21 giugno su Parronchi e Marcucci
Cari soci,
per me è stato un piacere chiudere il ciclo delle conferenze
di quest’anno parlandovi di due personaggi che ho particolarmente a cuore: il
pittore Mario Marcucci e il poeta Alessandro Parronchi.
Come richiesto da
alcuni di voi, pubblico qui una poesia di Parronchi a mia scelta, che potrete apprezzare
con calma nel tempo della lettura individuale. Si tratta della poesia-autoritratto
che Parronchi scrisse per sua figlia Agnese, quando aveva appena quattro anni,
e che meglio sintetizza la personalità dell’autore.
Io vi ringrazio ancora per essere stati
presenti e vi ricordo l’appuntamento con il concerto del 15 agosto che
inaugurerà il nuovo sistema d’illuminazione della facciata della Sint-Carolus Borromeuskerk. Spero di rivedervi
il prossimo anno, più numerosi ed entusiasti che mai.
Buona estate a tutti,
Rossella Pensiero
Da Pietà dell’atmosfera (1960-’70)
AUTORITRATTO
ALLA FIGLIA PER QUANDO AVRÀ VENTUN ANNI
Quattro
anni, e non ancora
qualche
verso per te.
E
menomale che non puoi volermene.
Passerà
molto tempo
prima
che tu ti accorga che ai quattro anni
tuo
padre non aveva
tentato
ancora, né saputo dirti
in
versi tutto il bene che ti vuole.
Mi
decido, ti scrivo per quel giorno
una
lettera, per i tuoi ventun anni,
che
spero di vedere, ma se pure
li
vedrò, chi sa mai se saprò, allora,
dirti
quello che in cuore
sento,
e sentirò sempre: anche se in questo
mondo
che ad ogni istante si trasforma
dovessi
rimaner senza parole.
Eccolo
qui tuo padre.
Antiquato,
lavora tutto il giorno.
La
sera è stanco morto, e non guadagna
Tanto
da metter su l’utilitaria.
Non
corre all’arrembaggio, non riesce
in
un mondo dove arricchire è legge,
a
ingegnarsi, a intrigare, a prevedere.
Eccita
l’ironia del progressista
e
l’eterno fascista lo perseguita,
riman
sempre alla striglia dei burocrati,
e il
lavoro già fatto non gli conta,
deve
ricominciar sempre da capo.
È
vecchio, e non disarma. E ancora lotta
contro
mulini a vento, polemizza
con
l’imbroglio dell’arte del suo tempo.
Fra
diecimila pittori operanti
Stima
ancora, da quando lo conobbe
Il
vecchio Mario. E stupore lo prende
tra
il rigoglio di tante intelligenze
d’essere
stato il primo a sostenerlo.
Donna
e letteratura tien distinte,
amandole
ambedue, ma non talmente
da
non stimarle un pericolo unite.
Così
non ama il sud, e il nord lo stomaca.
È un
fiorentino, e pensa che il dialetto
oggi
è soltanto sofisticheria,
e il
romanesco in special modo reputa
linguaggio
vil dell’itala sozzura.
Per
qualche verso di Nerval,
tutto
Éluard, tutto Neruda, tutto Brecht,
e
ancora tutto Pascoli darebbe.
È il
romanzo per lui genere morto,
che
solo l’abitudine e un intrigo
di
bas-bleu tiene in vita.
Salvo,
s’intende, lo «Scialo» e le «Cronache»,
che
Vasco, amico suo, scrisse con cuore
e
nervi ed esperienza.
Per
pochi, ultimi amici ama il presente,
questo
suo tempo disperato e amaro
che
con le proprie mani si distrugge,
e
tante cose che ha veduto risorgere
del
mondo dove nulla è nuovo e pure,
se
guardato, a ogni punto è meraviglia.
Tra
gli uomini di scienza ripartiti,
come
in ogni altro senato accademico,
stima
fiori di ingegni e di citrulli,
che
nel corso di qualche esperimento,
assecondano
i disegni del Padre,
come
bimbo che disfa il suo giocattolo
la
nostra terra manderanno in pezzi.
Si
ride del progresso, e ogni poetica
gl’ispira
incoercibile disgusto,
che
dalle facce non può separarla
di
chi per profittarne la sostiene.
E
quel che accade, al suo intelletto chiede
solo
d’umanità palpito e strazio.
Di
queste convinzioni egli ha pagato
e
paga e pagherà il peso e l’orgoglio.
Tu
crescerai. Saprai in che modo il saggio
Salomone
s’accorse
di
quale delle due fosse la vera
madre,
dalle
caverne della pietra
sentirai
come scorre dolce l’acqua
del
Giordano,
e
come piume al ramo
vadano,
come amore al cor gentile.
Nel
mentre che parole tanto futili,
ma
tanto dolci e futili, ma care,
non
potrai non udire… Ah, finché puoi
guardati
dagli artigli dei rapaci,
né
mai insidia di serpe tra i cespugli
-che
in mentre che ti parlo il male esiste
e
avanza- tocchi te bambina mia.
Gioca,
salta, rincorri, sgrana gli occhi
lucenti
alla purpurea meraviglia
d’un
cielo di tramonto. Anche di te
la
vita che decide farà donna
che
la vita conosce. Ma sarà
contento
il padre se una volta uditala
saprai
che sempre esiste la parola
che
dà certezza, incendia,
oltrepassa
la morte.
Così al
mondo
potessi
essere tu l’ultima vera
madre,
come mia madre,
come
le nostre buone, vecchie madri
che
santamente vivono nell’ombra
e
non conobbero altra legge che d’affetto.
lunedì 18 giugno 2018
Lo spiritismo e la nascita del giallo italiano
Nel corso del suo intervento presso l’Università di Anversa il dottor Andrea De Luca, ricercatore di origine abruzzese oggi insegnante a Bruxelles,
ha parlato ai nostri soci di un genere da sempre poco considerato nella
Letteratura italiana “di serie A”: il giallo.
La storia del giallo in Italia andrebbe invece completamente
rivalutata, secondo De Luca, non solo perché il genere permise di denunciare,
in forma velata, le disfunzioni del sistema sociale del sud Italia alla vigilia
e all’indomani dell’Unificazione, ma anche perché tra i primi gialli italiani troviamo
opere che furono di probabile ispirazione per scrittori come Arthur Conan
Doyle, padre letterario di Sherlock Holmes.
Ma partiamo dal principio. Stando all’attenta ricostruzione di De
Luca, contrariamente a quanto si è ormai consolidato nell’opinione comune, in
Italia questo genere non nasce con la collana della casa editrice Mondadori,
che alla fine degli anni ’20 gli attribuisce per la prima volta, e con successo,
un colore e un nome definitivi. Secondo la critica ufficiale infatti il primo giallo italiano sarebbe da individuare nel romanzo Il cappello del prete (1888) di Emilio
De Marchi, scrittore della Scapigliatura milanese che sceglie di ambientare
la vicenda a Napoli, dove il mistero legato all’omicidio di un sacerdote
vortica attorno al ritrovamento di un suo oggetto personale: il cappello.
A questo punto però De Luca fa un passo in più rispetto a quanto
affermato dalla critica, andando a scovare nei prodromi del genere quello che
per lui può essere già considerato un giallo a tutti gli effetti e, soprattutto,
individuando in quest’opera i punti di contatto con i romanzi di Conan Doyle.
Il libro in questione è Il mio
cadavere (1852) del napoletano Francesco Mastriani, il quale sebbene non
veda l’intervento di un investigatore, possiede già nella trama alcuni elementi
cardine del genere (come la presenza di un morto e di un’autopsia).
L’opera di Mastriani esce sotto forma di romanzo di appendice sulla
rivista Omnibus, in un periodo particolarmente fiorente per l’editoria europea
e per il Regno delle Due Sicilie in particolare, grazie ai primati raggiunti da
Ferdinando II di Borbone. Ma in qualche modo già canalizza i molteplici disagi vissuti dalla società italiana meridionale, in un periodo in cui i Borbone
avvertono in maniera sempre più pressante la minaccia della perdita del potere
e inaspriscono le misure punitive contro ogni forma di detrazione politica. Una
tensione che esploderà con l’Unità d’Italia, quando masse organizzate di
contadini insorgeranno contro il regime di tassazione imposto da Cavour, dando
vita ai primi germogli di criminalità organizzata contro lo Stato.
A Mastriani spetta il merito di aver descritto alla perfezione nelle
sue opere il momento storico che stava vivendo, unendo all’impronta verista (evidente
nella scelta di un linguaggio mimetico alla realtà sociale dei personaggi), il
tema dell’investigazione. Favorendo perciò quello che Antonio Gramsci definì un
“nuovo Umanesimo” per le persone meno alfabetizzate, attratte dalla narrativa
d’appendice.
Mastriani era anche un appassionato di Spiritismo ed era entrato in
contatto con Giovanni Damiani, membro della Society Psychical Research of London
e collaboratore dei baroni di Chiaia, presso i quali lavorava, in qualità di
bambinaia, la celebre medium napoletana Eusapia Palladino, i cui “poteri” furono
oggetto di studio da parte della comunità scientifica internazionale (da Cesare
Lombroso a Pierre e Marie Curie). I pareri illustri che si concentrarono su di
lei non fecero che alimentare la curiosità delle persone nei confronti del paranormale,
provocando il proliferare di libri in cui il sensazionalismo emotivo (legato ai
temi della morte e dell’occulto), incontrava l’espediente della suspense. La
combinazione tra Spiritismo e giallo si rivelò perfetta ai fini delle
vendite.
È qui che tra i vari autori (Capuana, Bracco, Verdinois) entra in
gioco anche Conan Doyle che nel 1926 scrive History
of Spiritualism, manifestando il suo interesse per questo campo. Si
potrebbe pensare, secondo l’ipotesi di De Luca, che l’autore di Sherlock
Holmes, per gli interessi e gli ambienti frequentati, sia potuto entrare in
contatto con l’opera dello scrittore napoletano, pubblicata 34 anni prima. Molti
sarebbero gli elementi che ci guiderebbero
in questa direzione: le scelte narrative (i personaggi del Dott. Weiss e del
Dott. Watson, le morti per avvelenamento), il fatto che entrambi gli scrittori conobbero
Eusapia Palladino, i numerosi viaggi a Napoli di Doyle e il titolo di Cavaliere
conferitogli da Francesco Crispi (anche lui appassionato di Spiritismo), o il
fatto che Filippo Mastriani (figlio dello scrittore) sia stato traduttore dei
primi due racconti di Sherlock Holmes, coincidenza che rafforzerebbe l’ipotesi
di un loro legame.
Lo scenario inedito delineato da Andrea De Luca, e presentato in
anteprima ai soci della Dante di Anversa, sarà argomento di una prossima
pubblicazione presso la casa editrice Marsilio di Venezia. A lui va il nostro
in bocca al lupo e l’augurio che il libro possa riscuotere lo stesso successo
di pubblico che rese celebre il genere da lui analizzato.
Rossella Pensiero
Un articolo su La Dante di Anversa - da "Buonissimo"
Dal recente numero di "Buonissimo", la rivista edita da Taste-Italy, ecco un articolo con foto sulle attività della Dante. Grazie agli amici di Taste Italy!
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