domenica 5 maggio 2019

Essere Gigione, il documentario di Valerio Vestoso presentato ai soci della Dante di Anversa


“Bravo italiano!”, “Canta ancora, tu porti gioia al cuore!”, “Canti bene italiano!” gridano i soldati tedeschi nel capolavoro di Ermanno Olmi Torneranno i prati.
Così, individuando in una canzone dal testo popolare il senso profondo di una sopravvivenza agognata, l’esercito nemico ascolta tra la neve la voce melodiosa di un soldato italiano, su un fronte di guerra candido, epurato da ogni segno di umana civiltà. Quella voce, così semplice e immediata, rappresenta infatti un momentaneo sollievo per lo spirito, una pausa sonora in quel silenzio asettico e privo di tempo, in cui le notti rincorrono le notti e la mente anela una via di fuga che dia sostegno al corpo.
Sembra paradossale partire da una citazione così alta, da un film d’autore così intimo e sofferto, per parlare di Luigi Ciaravola, in arte Gigione, protagonista di un documentario dalle tinte folkloristiche, ospitato dalla Filmhuis Klappei in occasione del Festival del Cinema Sociale, nella stessa giornata del film di Olmi. Eppure, l’uomo che emerge dal documentario di Valerio Vestoso, Essere Gigione, una volta indossata l’uniforme del cantante, sembra ricoprire una missione non distante da quella del soldato olmiano: invocato dalla folla, risponde alla richiesta di evasione di un uditorio ben preciso, quello della provincia italiana del centro-sud, dove le feste di piazza interrompono il susseguirsi dei giorni, allontanando per un attimo i pensieri dalle piccole prigioni quotidiane.
Gigione, guardato con circospezione da una certa parte d’Italia, viene spesso percepito come la caricatura di se stesso, per la schiettezza dei gesti, il modo di vestire diventato quasi un marchio di  fabbrica (immancabile il berretto e la t-shirt a maniche corte), ma soprattutto per le tematiche affrontate nei testi, che vanno dalla più pia devozione religiosa alla profanità più licenziosa, in un modo che farebbe sorridere (o inorridire a seconda dei casi) una mente mediamente istruita, senza andare a scomodare le vette più alte dell’intellettualismo. Una vera e propria macchietta se poi a conoscerlo, per la prima volta, al cinema, è un pubblico composto per la maggior parte da stranieri.
Tuttavia, il pregio del lavoro presentato da Vestoso non risiede tanto nel ritratto esuberante dell’artista e del suo fenomeno (così eclatante da sembrare inspiegabile) quanto nell’uomo che si cela dietro ai motivetti facili e allusivi e che, di tanto in tanto, fa capolino nella narrazione. Quando cioè è Luigi Ciaravola a raccontare il suo essere Gigione.



Nel turbinio di kermesse che animano i paesini del centro e del sud Italia durante il periodo estivo, quando il caldo rende tutto più caotico e chiassoso, l’abbigliamento, le posture, i rumori e persino gli odori, Gigione si muove da vero mestierante (con tutta la nobiltà semantica racchiusa nella definizione di chi sa come svolgere il proprio mestiere). Nonostante l’età, non si sottrae ai numerosi chilometri da percorrere per esibirsi anche in più concerti nella stessa giornata. Non si scompone se il camerino è composto da una tenda tirata su alla buona nel retro del palco, o nel mezzo di una campagna, e vi attende in silenzio e con pazienza, raccogliendo le energie, come un leone in attesa di salire nell’arena. Non cena per non compromettere la performance. Conosce perfettamente quello che il pubblico si aspetta da lui e gli dà esattamente quello che vuole, muovendosi tra la gente con la consapevolezza di chi sa di avere indovinato la formula vincente.
Gigione esercita la musica come mestiere, come raccontano le storie di molti uomini della sua generazione che, pur spinti da vocazioni artistiche, hanno anteposto ad esse le necessità primarie. In una piccola chiosa, scopriamo ad esempio che Luigi, cresciuto in una famiglia di musicisti, aveva iniziato sin dalla tenera età ad apprezzare il jazz (genere quantomeno sofisticato) ma che aveva poi scelto di abbandonarlo, perché col jazz “non si mangia”. Ciò lo ha portato a ricercare, e a trovare, la giusta strada per arrivare al cuore del suo pubblico, il più vasto e popolare possibile. E il suo pubblico lo ha premiato, trasformandolo in un idolo.



L’ascolto delle sue canzoni (sapientemente inserite in maniera extradiegetica da Vestoso in punti cardine della narrazione) e le scene di adorazione da parte dei suoi fan (sottolineate da inquadrature strette sui volti a catturarne le espressioni o su dettagli del vestiario che rinviano a precise connotazioni sociali) hanno strappato più di un sorriso nell’atmosfera sospesa della sala cinematografica, tra il divertito e l’incredulo.
Gli spettatori più scettici si saranno persino chiesti: a che pro girare un documentario su un personaggio del genere, tanto popolare sì, ma solo per il “popolo”? Ecco allora che l’attenzione deve necessariamente spostarsi dall’uomo al fenomeno.
Per trovare una possibile risposta a questa domanda, basta infatti soffermarsi su alcune delle storie raccontate dai suoi fan. Prima fra tutte quella di un’ex ballerina classica che, avendo perso l’uso totale del corpo in seguito a un incidente stradale, riesce ora a ritrovare la gioia e la leggerezza di un tempo solo intonando le sue canzoni e partecipando ai concerti, dove l’empatia con il pubblico non manca mai.



Una volta ascoltata la storia di questa ragazza, tutte le risate sgraziate, i trucchi e i tacchi esagerati, i cori sguaiati e i balli scomposti, sui quali tanto aveva insistito l’occhio ironico e dissacrante della telecamera, cambiano improvvisamente di significato e la risata lascia il posto alla riflessione. Il grottesco scompare quando ci si rende conto che ciò a cui si sta assistendo non è altro che la manifestazione di un’esigenza atavica, il bisogno universale di prendere parte a un rito collettivo, per condividere con gli altri, nello spazio comune di una piazza, il proprio stato d’animo, godere di un momento di evasione con i mezzi semplici che si hanno a disposizione. Non importa lo spessore del testo o la nota stonata, ma il motivo leggero che rinfranca lo spirito.
E allora che canti Gigione! “Bravo italiano”, “Canta ancora, tu porti gioia al cuore!”, “Canti bene italiano!”.
Rossella Pensiero

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