martedì 3 aprile 2018

INTERVISTA A PASQUALE PASSARETTI ED EDUARDO RICCIARDELLI, ATTORI IN TVATT


Il 12 marzo scorso ha varcato i confini nazionali lo spettacolo TVATT di Luigi Morra, liberamente ispirato a East e West di Steven Berkoff. Il tour nordeuropeo, promosso dalla Dante di Anversa, è approdato in uno dei principali teatri della città, 't Klokhuis, e negli Istituti Italiani di Cultura di Bruxelles e Amsterdam, riscuotendo un acceso interesse da parte del pubblico straniero, che ha sfidato le apparenti difficoltà legate alla tematica e a un uso dinamico di diversi codici linguistici, standard e non, per mettersi alla prova con uno spettacolo non convenzionale che sfrutta la contemporaneità espressiva per trattare di istinti primordiali.
Un plauso va sicuramente al pubblico belga e olandese per l'apertura dimostrata nei confronto di un teatro interattivo e polimorfo, ma per comprendere meglio il lavoro che ha portato alla realizzazione finale della pièce, abbiamo intervistato Pasquale Passaretti ed Eduardo Ricciardelli, che insieme a Luigi Morra, hanno fatto parte del cast.


-Pasquale Passaretti, parlaci del tuo personaggio…

In TVATT il mio personaggio è un non-personaggio, rappresenta infatti (diversamente dagli altri due) il più debole del gruppo, non sul piano mentale ma sul piano fisico. C’è sempre all’interno di questa sorta di “bande” quello che è il meno abile a fare le risse, allo stesso tempo però, nelle dinamiche che si creano, è proprio questo tipo di persona che dà il via alla violenza, che è funzionale al resto della banda per creare un’aggressione.
Così avviene infatti nel monologo “Naso rotto” che nasce da un episodio di vita vera: in un contesto di provincia, durante una festa popolare religiosa, questo personaggio è alla ricerca della rissa, individuando e riconoscendo i suoi nemici tra la folla, il suo andare a quella festa era dunque finalizzato proprio a rompere le scatole per riuscire a fare a botte.
Dal monologo si evince poi che lui sostanzialmente le prende, ci prova pur sapendo di prenderle. Perché a volte in queste dinamiche, può sembrare paradossale, ma non solo chi è bravo ad applicare la violenza in maniera attiva merita il rispetto dei suoi amici/compagni, ma anche chi in maniera passiva la violenza la subisce e perde l’incontro; può infatti prendersi la sua rivincita dicendo in giro “guarda, il mio naso è storto perché quella sera mi sono trovato in una rissa.”
C’è sempre la volontà di ritrovarsi in quelle dinamiche nonostante l’impossibilità di risultare vincente.
Infatti nello spettacolo è quello che è vestito diverso, che ha una camicia e delle scarpe, mentre gli altri personaggi sono a torso nudo e indossano gli zoccoli. Rappresenta la parte più fragile del gruppo che però non è meno cattiva, anzi è proprio il provocatore da cui tutto scaturisce.





                       
-Come nascono i monologhi? Sono il frutto di una tua creazione, di una collaborazione con gli altri membri della compagnia o la rilettura di monologhi teatrali già conosciuti a cui fai implicitamente riferimento?

Si tratta di tre monologhi. Il primo è costruito su un episodio di cronaca realmente accaduto nelle nostre zone, è stato creato con Luigi Morra partendo da un momento di improvvisazione, poi dallo scritto di Luigi, con alcuni miei inserimenti, si è arrivati alla chiusa finale che cerca appunto di raccontare l’episodio di violenza, un far finta di darle per poi riceverle. Gli altri due monologhi invece vengono chiamati “favolette senza morale” e sono ispirati al testo di Berkoff a cui guarda l’intero spettacolo e sono una summa dell’atteggiamento di provincia.
Nella seconda favoletta ad esempio si parla di quelle persone che si sentono sempre meglio delle generazioni presenti, per loro tutto ciò che c’era prima era migliore, aveva un valore più profondo «le persone prima camminavano tutte insieme, e quando camminavi, camminavi veramente…», ma anche oggi si cammina, «l’amicizia era l’amicizia», ma anche oggi l’amicizia è un valore universale. Fa il verso dunque a quel tipo di generazione e anche ai personaggi stessi che si sentono sempre protagonisti del loro tempo mettendo a paragone le cose che fanno con quello che li circonda.
La prima “favoletta senza morale” invece è quella del cane e del bambolotto che è un racconto che Luigi ha ascoltato nel suo paese, Mondragone, e che ha trasformato in drammaturgia.
Fino a trenta, quaranta anni fa, nel sud era normale che quando un animale domestico aveva dei cuccioli non attesi li si sopprimesse appena nati, perché rappresentavano un problema.
La cosa assurda e reale è che queste cose le facevano sempre le nonne o le mamme, che soprattutto nel meridione erano il simbolo massimo della dolcezza e della premura, perciò l’episodio è l’esempio giusto per evidenziare come la violenza c’è in tutto, anche in una dolce nonna che con molta nonchalance prende i cuccioli e li uccide in maniera cruenta sbattendoli contro un gradino di marmo con un colpo secco, come fosse un’azione normale. Oggi è assurdo pensare una cosa del genere, nei nostri anni c’è fortunatamente una pet harmony molto forte, mentre prima era considerato normale.
Nascevano dei gattini, non erano benvenuti, venivano soppressi a un’ora dalla nascita. È proprio questo contrasto che c’è sempre interessato ed è emblematico per indicare come poi la violenza non sia prerogativa esclusiva delle persone grette.
Le parti che recito io dunque si inseriscono in un discorso che non vuole essere prettamente drammaturgico-narrativo, ma che serve a costruire un mood, un’atmosfera chiara, nonostante non ci sia una vera storia da raccontare, ma l’intento di fornire una chiara sensazione.





-Una domanda sull’uso degli oggetti di scena, tu hai solo un microfono che in maniera molto efficace a volte diventa il cucciolo da sopprimere altre la bottiglia di birra da spaccare sulla testa al nemico…

Questo rientra nel nostro modo di lavorare che è comunque determinato da un percorso e dagli ambienti che abbiamo sempre frequentato. Il gioco di questo spettacolo è proprio questo: prendere un’estetica contemporanea o sperimentale e creare uno spettacolo che è apparentemente leggero, perché c’è tutta una parte divertente che poi diventa più pesante, più efficace nel dare una sensazione di strazio, e lo facciamo prendendo degli oggetti che poi trasformiamo in altro.
È il risultato del nostro percorso di clown, perché il clown è colui che gioca molto sulla mistificazione degli oggetti, trasformando una scarpa in un telefono e viceversa, quindi ci sembrava normale riuscire a dare un senso altro alle cose che utilizziamo. Cosi come le sedie che vogliono dare l’idea del cemento della periferia, sono efficaci nel dare una dinamica immaginifica altra. È una cosa che facciamo anche in altri spettacoli ed è un modo che ci piace conservare e approfondire, può sembrare semplice raccontare le cose con pochi elementi scenografici, ma c’è un lavoro dietro che parte dall’improvvisazione clownesca per arrivare a scavare nel senso profondo che gli oggetti possono dare al racconto.


-Eduardo Ricciardelli, cosa ci dici invece del tuo personaggio?
Insieme a Luigi e a Pasquale abbiamo sviluppato queste tre figure di bruti, di picchiaduro da bar, il mio personaggio è quello che è più silenzioso, perché è quello più pericoloso da un punto di vista animale, nella sua essenza c’è l’azione e non la parte verbale, quindi non si racconta tramite delle linee vocali ma tramite un universo gestuale che è quello di un totale silenzio del corpo, di fermezza, che poi si rivela invece in un’esplosione animale. Abbiamo deciso infatti di utilizzare una maschera, realizzata da me in maniera molto grezza a livello artigianale, una maschera che sembra quasi distrutta, quasi un volto tumefatto dalle botte e poi abbiamo lavorato sui vari linguaggi e varie possibilità che questo personaggio aveva di esprimersi avendo compiuto quasi il settantacinque percento dello spettacolo stando fermo, osservando solo e respirando, facendo solo delle azioni. Nello studiare questo personaggio, nella parte in cui sta fermo, mi sono ispirato allo sguardo di un grande attore americano, Ben Gazzara, che ha recitato la parte del  Professore 'e Vesuviano (Raffaele Cutolo) nel film Il camorrista di Giuseppe Tornatore. Lui è il tipo di personaggio che al bar eviti di guardare, perché ha una sua evidente pericolosità. La parte in maschera e in movimento è invece il risultato di uno studio che io e Luigi portiamo avanti da tempo ad esempio con il “progetto Caravan” (per approfondimenti: www.eternitonline.it/progetto-caravan/).




-Nella parte in cui finalmente entri in azione indossi una maschera, hai una gestualità espansiva che coinvolge soprattutto gambe e braccia e nel momento in cui mimi di picchiare qualcuno lo fai simulando l’utilizzo di un bastone. Questi tre elementi richiamano quasi direttamente una figura tanto classica quanto sventurata del teatro napoletano, è possibile definire il tuo personaggio un crudo e contemporaneo pulcinella? Bastonatore spesso bastonato…

Nonostante l’utilizzo nello spettacolo di un dialetto che si confà alla cultura campana in realtà non sono partito dalla costruzione fisica di una maschera in particolare. Se dovessi pensare a una figura, più che a un Pulcinella, che ha un’attitudine più pigra, penserei a uno Zanni.
Il gioco della maschera sicuramente per la fisicità richiama uno Zanni cinquecentesco, quindi molto rozzo, molto grezzo proprio a livello di posture e di iconografia, però uno Zanni riportato, con molta difficoltà (sono sincero) per lo studio che c’è stato dietro, a una contemporaneità che non è semplice da raccontare: quella della violenza.
La maschera che indosso è fatta sul calco di uno Zanni, ma appunto è fatta male, è lacerata per un motivo preciso, io faccio delle maschere ma non ho tutti i paradigmi e non ho ben chiare tutte le fasi di costruzione, quindi quelle che escono sono delle maschere “umane” e non delle maschere di tipi fissi della Commedia.
La maschera mi ha aiutato a trovare questa dimensione che è molto legata a uno Zanni arcaico, terreno, forse anche un Pulcinella ma sicuramente non quello legato alla tradizione del ‘700 e dell’800, ma uno dei primi. I temi fondamentali per Pulcinella sono l’amore, il denaro e la fame, in questo ambito invece il tema fondamentale è il binomio tra il menare e l’essere menato. Nelle storie questi personaggi di strada magari hanno picchiato ma hanno anche ricevuto tante tante mazzate, in questo senso c’è un background legato alla potenza, all’uso degli arti e le posture sono sicuramente quelle di un servo, questo è indubbio, non c’è nulla di formalmente regale, solo di terreno e demoniaco…



-Dunque la maschera che indossi sulla scena è una tua creazione, realizzare maschere è solo un hobby?

Lavorando sulle maschere della Commedia dell’arte come idea quasi di vita ho conosciuto dei costruttori, però non ho mai seguito un corso vero e proprio, sono quasi un autodidatta, ho iniziato chiedendo dei consigli su come farle, ma non posso definirmi un artigiano né tantomeno un mascheraio. Sono sicuramente il risultato di qualcosa che cammina vicino a me e del piacere che è legato al mio lavoro, perché poi il lavoro sulla maschera mi insegna che una maschera fatta bene ha un’energia molto più precisa. Una volta per questo stesso spettacolo ho utilizzato una maschera che mi aveva prestato Pasquale e le direzioni che indicava erano molto più precise di questa maschera qua, questa è molto più difficile, di solito la maschera ti aiuta a precisare, questa mi aiuta a perdermi.

Rossella Pensiero

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