Cari soci,
per me è stato un piacere chiudere il ciclo delle conferenze
di quest’anno parlandovi di due personaggi che ho particolarmente a cuore: il
pittore Mario Marcucci e il poeta Alessandro Parronchi.
Come richiesto da
alcuni di voi, pubblico qui una poesia di Parronchi a mia scelta, che potrete apprezzare
con calma nel tempo della lettura individuale. Si tratta della poesia-autoritratto
che Parronchi scrisse per sua figlia Agnese, quando aveva appena quattro anni,
e che meglio sintetizza la personalità dell’autore.
Io vi ringrazio ancora per essere stati
presenti e vi ricordo l’appuntamento con il concerto del 15 agosto che
inaugurerà il nuovo sistema d’illuminazione della facciata della Sint-Carolus Borromeuskerk. Spero di rivedervi
il prossimo anno, più numerosi ed entusiasti che mai.
Buona estate a tutti,
Rossella Pensiero
Da Pietà dell’atmosfera (1960-’70)
AUTORITRATTO
ALLA FIGLIA PER QUANDO AVRÀ VENTUN ANNI
Quattro
anni, e non ancora
qualche
verso per te.
E
menomale che non puoi volermene.
Passerà
molto tempo
prima
che tu ti accorga che ai quattro anni
tuo
padre non aveva
tentato
ancora, né saputo dirti
in
versi tutto il bene che ti vuole.
Mi
decido, ti scrivo per quel giorno
una
lettera, per i tuoi ventun anni,
che
spero di vedere, ma se pure
li
vedrò, chi sa mai se saprò, allora,
dirti
quello che in cuore
sento,
e sentirò sempre: anche se in questo
mondo
che ad ogni istante si trasforma
dovessi
rimaner senza parole.
Eccolo
qui tuo padre.
Antiquato,
lavora tutto il giorno.
La
sera è stanco morto, e non guadagna
Tanto
da metter su l’utilitaria.
Non
corre all’arrembaggio, non riesce
in
un mondo dove arricchire è legge,
a
ingegnarsi, a intrigare, a prevedere.
Eccita
l’ironia del progressista
e
l’eterno fascista lo perseguita,
riman
sempre alla striglia dei burocrati,
e il
lavoro già fatto non gli conta,
deve
ricominciar sempre da capo.
È
vecchio, e non disarma. E ancora lotta
contro
mulini a vento, polemizza
con
l’imbroglio dell’arte del suo tempo.
Fra
diecimila pittori operanti
Stima
ancora, da quando lo conobbe
Il
vecchio Mario. E stupore lo prende
tra
il rigoglio di tante intelligenze
d’essere
stato il primo a sostenerlo.
Donna
e letteratura tien distinte,
amandole
ambedue, ma non talmente
da
non stimarle un pericolo unite.
Così
non ama il sud, e il nord lo stomaca.
È un
fiorentino, e pensa che il dialetto
oggi
è soltanto sofisticheria,
e il
romanesco in special modo reputa
linguaggio
vil dell’itala sozzura.
Per
qualche verso di Nerval,
tutto
Éluard, tutto Neruda, tutto Brecht,
e
ancora tutto Pascoli darebbe.
È il
romanzo per lui genere morto,
che
solo l’abitudine e un intrigo
di
bas-bleu tiene in vita.
Salvo,
s’intende, lo «Scialo» e le «Cronache»,
che
Vasco, amico suo, scrisse con cuore
e
nervi ed esperienza.
Per
pochi, ultimi amici ama il presente,
questo
suo tempo disperato e amaro
che
con le proprie mani si distrugge,
e
tante cose che ha veduto risorgere
del
mondo dove nulla è nuovo e pure,
se
guardato, a ogni punto è meraviglia.
Tra
gli uomini di scienza ripartiti,
come
in ogni altro senato accademico,
stima
fiori di ingegni e di citrulli,
che
nel corso di qualche esperimento,
assecondano
i disegni del Padre,
come
bimbo che disfa il suo giocattolo
la
nostra terra manderanno in pezzi.
Si
ride del progresso, e ogni poetica
gl’ispira
incoercibile disgusto,
che
dalle facce non può separarla
di
chi per profittarne la sostiene.
E
quel che accade, al suo intelletto chiede
solo
d’umanità palpito e strazio.
Di
queste convinzioni egli ha pagato
e
paga e pagherà il peso e l’orgoglio.
Tu
crescerai. Saprai in che modo il saggio
Salomone
s’accorse
di
quale delle due fosse la vera
madre,
dalle
caverne della pietra
sentirai
come scorre dolce l’acqua
del
Giordano,
e
come piume al ramo
vadano,
come amore al cor gentile.
Nel
mentre che parole tanto futili,
ma
tanto dolci e futili, ma care,
non
potrai non udire… Ah, finché puoi
guardati
dagli artigli dei rapaci,
né
mai insidia di serpe tra i cespugli
-che
in mentre che ti parlo il male esiste
e
avanza- tocchi te bambina mia.
Gioca,
salta, rincorri, sgrana gli occhi
lucenti
alla purpurea meraviglia
d’un
cielo di tramonto. Anche di te
la
vita che decide farà donna
che
la vita conosce. Ma sarà
contento
il padre se una volta uditala
saprai
che sempre esiste la parola
che
dà certezza, incendia,
oltrepassa
la morte.
Così al
mondo
potessi
essere tu l’ultima vera
madre,
come mia madre,
come
le nostre buone, vecchie madri
che
santamente vivono nell’ombra
e
non conobbero altra legge che d’affetto.
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