Il 12 marzo scorso ha varcato i confini nazionali lo spettacolo TVATT di Luigi Morra, liberamente ispirato a East e West di Steven Berkoff. Il tour nordeuropeo, promosso dalla Dante di Anversa, è approdato in uno dei principali teatri della città, 't Klokhuis, e negli Istituti Italiani di Cultura di Bruxelles e Amsterdam, riscuotendo un acceso interesse da parte del pubblico straniero, che ha sfidato le apparenti difficoltà legate alla tematica e a un uso dinamico di diversi codici linguistici, standard e non, per mettersi alla prova con uno spettacolo non convenzionale che sfrutta la contemporaneità espressiva per trattare di istinti primordiali.
Un plauso va sicuramente al pubblico belga e olandese per l'apertura dimostrata nei confronto di un teatro interattivo e polimorfo, ma per comprendere meglio il lavoro che ha portato alla realizzazione finale della pièce, abbiamo intervistato Pasquale Passaretti ed Eduardo Ricciardelli, che insieme a Luigi Morra, hanno fatto parte del cast.
-Pasquale Passaretti, parlaci del tuo personaggio…
Un plauso va sicuramente al pubblico belga e olandese per l'apertura dimostrata nei confronto di un teatro interattivo e polimorfo, ma per comprendere meglio il lavoro che ha portato alla realizzazione finale della pièce, abbiamo intervistato Pasquale Passaretti ed Eduardo Ricciardelli, che insieme a Luigi Morra, hanno fatto parte del cast.
-Pasquale Passaretti, parlaci del tuo personaggio…
In TVATT il mio personaggio
è un non-personaggio, rappresenta infatti (diversamente dagli altri due) il più
debole del gruppo, non sul piano mentale ma sul piano fisico. C’è sempre all’interno
di questa sorta di “bande” quello che è il meno abile a fare le risse, allo
stesso tempo però, nelle dinamiche che si creano, è proprio questo tipo di
persona che dà il via alla violenza, che è funzionale al resto della banda per
creare un’aggressione.
Così avviene infatti nel monologo “Naso rotto” che nasce da un
episodio di vita vera: in un contesto di provincia, durante una festa popolare
religiosa, questo personaggio è alla ricerca della rissa, individuando e riconoscendo
i suoi nemici tra la folla, il suo andare a quella festa era dunque finalizzato
proprio a rompere le scatole per riuscire a fare a botte.
Dal monologo si evince poi che lui sostanzialmente le prende, ci prova
pur sapendo di prenderle. Perché a volte in queste dinamiche, può sembrare
paradossale, ma non solo chi è bravo ad applicare la violenza in maniera attiva
merita il rispetto dei suoi amici/compagni, ma anche chi in maniera passiva la
violenza la subisce e perde l’incontro; può infatti prendersi la sua rivincita
dicendo in giro “guarda, il mio naso è storto perché quella sera mi sono
trovato in una rissa.”
C’è sempre la volontà di ritrovarsi in quelle dinamiche nonostante l’impossibilità
di risultare vincente.
Infatti nello spettacolo è quello che è vestito diverso, che ha una
camicia e delle scarpe, mentre gli altri personaggi sono a torso nudo e
indossano gli zoccoli. Rappresenta la parte più fragile del gruppo che però non
è meno cattiva, anzi è proprio il provocatore da cui tutto scaturisce.
-Come nascono i monologhi? Sono
il frutto di una tua creazione, di una collaborazione con gli altri membri
della compagnia o la rilettura di monologhi teatrali già conosciuti a cui fai
implicitamente riferimento?
Si tratta di tre monologhi. Il primo è costruito su un episodio di
cronaca realmente accaduto nelle nostre zone, è stato creato con Luigi Morra
partendo da un momento di improvvisazione, poi dallo scritto di Luigi, con alcuni
miei inserimenti, si è arrivati alla chiusa finale che cerca appunto di
raccontare l’episodio di violenza, un far finta di darle per poi riceverle. Gli
altri due monologhi invece vengono chiamati “favolette senza morale” e sono
ispirati al testo di Berkoff a cui guarda l’intero spettacolo e sono una summa
dell’atteggiamento di provincia.
Nella seconda favoletta ad esempio si parla di quelle persone che si
sentono sempre meglio delle generazioni presenti, per loro tutto ciò che c’era
prima era migliore, aveva un valore più profondo «le persone prima camminavano
tutte insieme, e quando camminavi, camminavi veramente…», ma anche oggi si cammina, «l’amicizia
era l’amicizia», ma anche oggi l’amicizia è un valore universale. Fa il
verso dunque a quel tipo di generazione e anche ai personaggi stessi che si
sentono sempre protagonisti del loro tempo mettendo a paragone le cose che
fanno con quello che li circonda.
La prima “favoletta senza morale” invece è quella del cane e del bambolotto che è un racconto che Luigi ha ascoltato
nel suo paese, Mondragone, e che ha trasformato in drammaturgia.
Fino a trenta, quaranta anni fa, nel sud era normale che quando un
animale domestico aveva dei cuccioli non attesi li si sopprimesse appena nati,
perché rappresentavano un problema.
La cosa assurda e reale è che queste cose le facevano sempre le nonne
o le mamme, che soprattutto nel meridione erano il simbolo massimo della
dolcezza e della premura, perciò l’episodio è l’esempio giusto per evidenziare
come la violenza c’è in tutto, anche in una dolce nonna che con molta nonchalance prende i cuccioli e li
uccide in maniera cruenta sbattendoli contro un gradino di marmo con un colpo
secco, come fosse un’azione normale. Oggi è assurdo pensare una cosa del
genere, nei nostri anni c’è fortunatamente una pet harmony molto forte, mentre prima era considerato normale.
Nascevano dei gattini, non erano benvenuti, venivano soppressi a
un’ora dalla nascita. È proprio questo contrasto che c’è sempre interessato ed
è emblematico per indicare come poi la violenza non sia prerogativa esclusiva delle
persone grette.
Le parti che recito io dunque si inseriscono in un discorso che non
vuole essere prettamente drammaturgico-narrativo, ma che serve a costruire un
mood, un’atmosfera chiara, nonostante non ci sia una vera storia da raccontare,
ma l’intento di fornire una chiara sensazione.
-Una domanda sull’uso degli
oggetti di scena, tu hai solo un microfono che in maniera molto efficace a
volte diventa il cucciolo da sopprimere altre la bottiglia di birra da spaccare
sulla testa al nemico…
Questo rientra nel nostro modo di lavorare che è comunque determinato
da un percorso e dagli ambienti che abbiamo sempre frequentato. Il gioco di
questo spettacolo è proprio questo: prendere un’estetica contemporanea o
sperimentale e creare uno spettacolo che è apparentemente leggero, perché c’è
tutta una parte divertente che poi diventa più pesante, più efficace nel dare
una sensazione di strazio, e lo facciamo prendendo degli oggetti che poi
trasformiamo in altro.
È il risultato del nostro percorso di clown, perché il clown è colui
che gioca molto sulla mistificazione degli oggetti, trasformando una scarpa in
un telefono e viceversa, quindi ci sembrava normale riuscire a dare un senso
altro alle cose che utilizziamo. Cosi come le sedie che vogliono dare l’idea
del cemento della periferia, sono efficaci nel dare una dinamica immaginifica
altra. È una cosa che facciamo anche in altri spettacoli ed è un modo che ci
piace conservare e approfondire, può sembrare semplice raccontare le cose con pochi
elementi scenografici, ma c’è un lavoro dietro che parte dall’improvvisazione
clownesca per arrivare a scavare nel senso profondo che gli oggetti possono
dare al racconto.
-Eduardo Ricciardelli, cosa ci
dici invece del tuo personaggio?
Insieme a Luigi e a Pasquale
abbiamo sviluppato queste tre figure di bruti, di picchiaduro da bar, il mio personaggio è quello che è più
silenzioso, perché è quello più pericoloso da un punto di vista animale, nella
sua essenza c’è l’azione e non la parte verbale, quindi non si racconta tramite
delle linee vocali ma tramite un universo gestuale che è quello di un totale
silenzio del corpo, di fermezza, che poi si rivela invece in un’esplosione
animale. Abbiamo deciso infatti di utilizzare una maschera, realizzata da me in
maniera molto grezza a livello artigianale, una maschera che sembra quasi
distrutta, quasi un volto tumefatto dalle botte e poi abbiamo lavorato sui vari
linguaggi e varie possibilità che questo personaggio aveva di esprimersi avendo
compiuto quasi il settantacinque percento dello spettacolo stando fermo,
osservando solo e respirando, facendo solo delle azioni. Nello studiare questo
personaggio, nella parte in cui sta fermo, mi sono ispirato allo sguardo di un
grande attore americano, Ben Gazzara, che ha recitato la parte del Professore
'e Vesuviano (Raffaele Cutolo) nel film Il
camorrista di Giuseppe Tornatore. Lui è il tipo di personaggio che al bar
eviti di guardare, perché ha una sua evidente pericolosità. La parte in maschera
e in movimento è invece il risultato di uno studio che io e Luigi portiamo
avanti da tempo ad esempio con il “progetto Caravan” (per approfondimenti: www.eternitonline.it/progetto-caravan/).
-Nella parte in cui finalmente
entri in azione indossi una maschera, hai una gestualità espansiva che
coinvolge soprattutto gambe e braccia e nel momento in cui mimi di picchiare
qualcuno lo fai simulando l’utilizzo di un bastone. Questi tre elementi
richiamano quasi direttamente una figura tanto classica quanto sventurata del
teatro napoletano, è possibile definire il tuo personaggio un crudo e
contemporaneo pulcinella? Bastonatore spesso bastonato…
Nonostante l’utilizzo nello spettacolo di un dialetto che si confà
alla cultura campana in realtà non sono partito dalla costruzione fisica di una
maschera in particolare. Se dovessi pensare a una figura, più che a un Pulcinella,
che ha un’attitudine più pigra, penserei a uno Zanni.
Il gioco della maschera sicuramente per la fisicità richiama uno Zanni
cinquecentesco, quindi molto rozzo, molto grezzo proprio a livello di posture e
di iconografia, però uno Zanni riportato, con molta difficoltà (sono sincero) per
lo studio che c’è stato dietro, a una contemporaneità che non è semplice da
raccontare: quella della violenza.
La maschera che indosso è fatta sul calco di uno Zanni, ma appunto è
fatta male, è lacerata per un motivo preciso, io faccio delle maschere ma non
ho tutti i paradigmi e non ho ben chiare tutte le fasi di costruzione, quindi
quelle che escono sono delle maschere “umane” e non delle maschere di tipi
fissi della Commedia.
La maschera mi ha aiutato a trovare questa dimensione che è molto
legata a uno Zanni arcaico, terreno, forse anche un Pulcinella ma sicuramente
non quello legato alla tradizione del ‘700 e dell’800, ma uno dei primi. I temi
fondamentali per Pulcinella sono l’amore, il denaro e la fame, in questo ambito
invece il tema fondamentale è il binomio tra il menare e l’essere menato. Nelle
storie questi personaggi di strada magari hanno picchiato ma hanno anche ricevuto
tante tante mazzate, in questo senso c’è un background
legato alla potenza, all’uso degli arti e le posture sono sicuramente
quelle di un servo, questo è indubbio, non c’è nulla di formalmente regale,
solo di terreno e demoniaco…
-Dunque la maschera che indossi
sulla scena è una tua creazione, realizzare maschere è solo un hobby?
Lavorando sulle maschere della
Commedia dell’arte come idea quasi di vita ho conosciuto dei costruttori, però
non ho mai seguito un corso vero e proprio, sono quasi un autodidatta, ho
iniziato chiedendo dei consigli su come farle, ma non posso definirmi un
artigiano né tantomeno un mascheraio. Sono sicuramente il risultato di qualcosa
che cammina vicino a me e del piacere che è legato al mio lavoro, perché poi il
lavoro sulla maschera mi insegna che una maschera fatta bene ha un’energia
molto più precisa. Una volta per questo stesso spettacolo ho utilizzato una
maschera che mi aveva prestato Pasquale e le direzioni che indicava erano molto
più precise di questa maschera qua, questa è molto più difficile, di solito la
maschera ti aiuta a precisare, questa mi aiuta a perdermi.
Rossella Pensiero
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